Oggi è la Giornata Mondiale della Poesia e noi la celebriamo attraverso un articolo scritto da Rosella Schiesaro.
Oggi è la Giornata Mondiale della Poesia, un vero ristoro per l’anima e per il nostro cuore.
Per Giorgio Caproni “La poesia è prima di tutto libertà”
Il 21 marzo segna la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dall’UNESCO nel 1999 con l’obiettivo di celebrare e promuovere il genere poetico, spesso sottovalutato o, comunque, poco conosciuto e popolare nel panorama contemporaneo.
Il motivo per cui la data è stata fissata proprio il 21 marzo è presto spiegato: essa coincide, nell’emisfero settentrionale, con l’inizio della primavera, una stagione universalmente ritenuta la più “poetica” dell’anno solare.
Il compito della poesia è proprio quello di ricordarci che esiste qualcos’altro.
Ci aiuta a tirarci fuori dalla quotidianità – non per anestetizzarci o offrirci una semplice via di fuga dalla realtà, ma per risvegliare in noi qualcosa che forse nemmeno ci siamo accorti fosse addormentato, mettendoci in contatto con la nostra anima più profonda.
La Giornata Mondiale della Poesia fu istituita dalla XXX Sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1999 e celebrata per la prima volta il 21 marzo dell’anno successivo.
La data, che segna anche il primo giorno di primavera, attribuisce alla poesia un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo e della comprensione interculturale, della diversità linguistica, della comunicazione e della pace.
Giovanni Puglisi, già Presidente della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, spiega che la celebrazione della Giornata Mondiale della Poesia rappresenta “l’incontro tra le diverse forme della creatività, affrontando le sfide che la comunicazione e la cultura devono attraversare in questi anni”.
Come sottolinea Puglisi, infatti, “tra le diverse forme di espressione, ogni società umana guarda all’antichissimo statuto dell’arte poetica come a un luogo fondante della memoria, base di tutte le altre forme della creatività letteraria ed artistica”.
Giorgio Caproni e la sua idea di poesia
In questa luce, risulta interessante riportare alcuni passi del discorso tenuto da Giorgio Caproni – poeta livornese ma genovese d’adozione – il 10 dicembre 1984 all’Università di Urbino in occasione del conferimento della laurea in Lettere e Filosofia.
Caproni, da sempre restio a ricercare una definizione univoca di poesia, ha voluto invece riflettere sulla sua essenza e sulla sua capacità di toccare le corde più intime e profonde dell’animo umano.
Allergico alle definizioni, sempre controcorrente, poco allineato e per questo meno “famoso” dei suoi coetanei, Caproni costruisce le sue raccolte come un complesso di variazioni intorno a un nucleo centrale, magari talvolta sottinteso e perfino contraddetto, ma pur sempre dominante.
E’ difficile, forse impossibile, frantumare le sue raccolte ed estrapolare singole poesie senza correre il rischio di frammentarle e di perderne l’intima e complessa correlazione.
Il monito del poeta Giorgio Caproni
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.
I versi appena letti possono rappresentare l’incipit ideale della riflessione presentata da Caproni ad Urbino.
“Non credo che l’antico vasaio si preoccupasse troppo di discettare con teoretica esattezza intorno alla natura e all’essenza di un vaso.
Si preoccupava, piuttosto, di modellare vasi che fossero, quanto più possibile, “vasi” nel senso della bellezza oltre che in quello dell’utilità: in senso estetico e funzionale, si direbbe oggi.
Definire che cos’è la poesia non è mai stato nelle mie aspirazioni, pur se più d’una volta m’è capitato di dover precisare in che consista, secondo me, la profonda differenza tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico.
[…] Linguaggio pratico e linguaggio poetico (cerco di riassumere quelle mie remote affermazioni) usano, è vero, lo stesso codice di convenuti segnali (e proprio di codici e di segnali, io ignaro, già parlavo allora).
Ma mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma anche si carica di una serie pressoché infinita di significati “armonici” (e dico armonici usando il termine com’è usato nella fisica e nella musica) che ne forma la sua peculiare forza espressiva.
Quando in caserma suonava la cornetta del rancio
Farò un esempio molto grossolano.
Mi trovo in una caserma, dove ancora i segnali vengono trasmessi da una cornetta.
La cornetta squilla il segnale del rancio, e il marmittone che conosce il codice prende la gavetta (allora quando scrivevo queste cose si usava ancora la gavetta) e si allinea nel cortile per ricevere la “sbobba”.
Ma supponiamo che un estroso ufficiale di picchetto, invece che dalla solita cornetta, faccia suonare quello stesso segnale da un virtuoso di flauto.
Il soldato, sì, capisce che quello è il segnale del rancio, ma anche sente qualcosa d’altro (il valore musicale di quel segnale: il significante, si direbbe oggi), e certamente resterà interdetto (incantato ad ascoltarlo), anziché precipitarsi alla chiamata.

[…]È per questa peculiarità del linguaggio poetico che anch’io sto dalla parte di chi ritiene intraducibile la poesia.
Di chi crede pressoché impossibile la sua riduzione in termini logici.
Basta spostare un vocabolo, un accento e l’incanto è rotto. Viene a mancare, appunto, l’energia espressiva della Musica.
Della Musica, dico, non della musicalità. E quindi resta polverizzata la poesia: il valore espressivo che la parola assume, con la musica, oltre il senso letterale caricandosi o arricchendosi di quella pluralità di significati (di risonanze mentali) da me poco fa chiamati gli “armonici”.
Passando ad altro, sempre in tema di poesia, ma non più soltanto di linguaggio poetico.
Mia ambizione, o vocazione, è sempre stata quella di riuscire, attraverso la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti.
O, per esser più modesti e precisi una verità (una delle tante verità ipotizzabili) che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mézigues (o “me stessi”) che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure), del quale io non sono che una delle tante cellule viventi.
[…] Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerìas del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno coscienza.
L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia.
Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dai laterizi delle proprie personali esperienze, e costruendo con tali laterizi le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù.
E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità.
La funzione sociale civile della poesia, sta, o dovrebbe stare, appunto in questo.
Un’ultima considerazione vorrei aggiungere, prima di chiudere.
Poesia significa in primo luogo libertà
Libertà e disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona: di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione.
Possiamo notare la drammatica attualità di questi ragionamenti che sembrano descrivere perfettamente i tempi odierni.
“La società in cui viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre gli individui a una somma di “consumatori”, ai quali nell’imperante mercificazione anche di quelle che una volta venivano chiamate le aspirazioni spirituali si vorrebbero imporre bisogni artificialmente creati per alimentare una macchina economica che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’ogni scelta interiore.
Il poeta è il più deciso oppositore, per sua propria natura, di tale sistema.
È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine.
E per questo il sistema lo avversa, sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia cercando di minimizzarne la figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia.
Ho fisse in mente queste parole di Kierkegaard: “Si è abolito il Cristianesimo, perché dappertutto si è ricacciata indietro la personalità.
Pare che si tema che l’Io debba essere una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba essere livellato e nascosto…”.
A distanza di ben oltre un secolo, sono parole di una terrificante attualità, cui è impossibile non aggiungere con un brivido quasi contemporanee le altre del Leopardi, profetizzanti un’ “età delle macchine”, così detta “non solo perché gli uomini d’oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio” perchè “ormai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita”, fino a “venire a comprendere oltre che le cose materiali, anche le spirituali”.
Quarant’anni dopo le riflessioni di Giorgio Caproni risultano quanto mai attuali e significative. Così come la sua intera opera poetica, che è possibile ripercorrere attraverso il magazine di Liguria Day “Giorgio Caproni, dalla percezione sensoriale del mondo all’estrema solitudine interiore”.
Un viaggio carico di poesia dove ripercorro la vita e l’attività poetica di uno dei più grandi poeti del ‘900.
Rosella Schiesaro©
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